Avevo conosciuto Meteora a una festa di cento persone stipate in quattro locali. Nell’aria satura di fumo c'era odore di sesso. Mi trovai vicino a una tipa che sorseggiava birra appoggiata allo stipite di una porta. Dieci minuti più tardi, nel buio di uno sgabuzzino, discutevamo del mio abbandono dell'università. Alzando le spalle la tipa disse: “Dovevi ucciderlo” con una naturalezza che mi fece sorridere. Analizzammo i pro, i contro, la possibilità di farla franca e alla fine abbozzammo un piano per far fuori il mio vecchio prof. di farmacologia, quello che mi aveva tolto la voglia di studiare.
Non mi pento di nulla. Quel bastardo meritava di morire non una ma dieci volte. Faceva tribuna politica, l'accattone, invece di insegnare. Approfittava della cattedra per fare comizi. A fine ora avevo il quaderno pieno di greche e arzigogoli, con una formuletta chimica in fondo alla pagina dettata gli ultimi cinque minuti da mandar giù a memoria. Per seguire le lezioni prendevo un permesso che faceva storcere il muso al mio datore di lavoro, e parcheggiavo in divieto di sosta per arrivare in orario. Sette multe mi era costato quel corso per sentirmi dire all’esame che non avevo capito, che dovevo ricominciare dalle basi, che avevo gravi lacune…
Meteora sapeva capire, e quella sera nello sgabuzzino interpretò il mio sfogo come un segnale. Mi disse che avevo bisogno di crescere e che solo assecondando il destino mi sarei liberato da tutte le ansie. Mi giurò che non avrei più avuto attacchi di panico e non sarei più rimasto inerme, con il cuore a mille e la costrizione toracica ad aspettare che il respiro tornasse normale, se solo avessi sfogato quell’accumulo di energia nell’unico modo possibile.
Il piano funzionò.
Mi stupì la naturalezza con cui Meteora cominciò a seguire farmacologia spacciandosi per aspirante biologa. A fine lezione, si fermava per chiedere spiegazioni al tricheco sull’argomento politico all’ordine del giorno; lo faceva fingendosi timida. Piegandosi in avanti, capitava che il decolletet le cadesse un po’ troppo; allora tirava su la maglietta facendo in modo che il seno ballonzolasse davanti agli occhi del vecchio.
Chissà quanto Viagra aveva in corpo la sera della sua fine, quel panzone.
«Mi piacerebbe approfondire l’argomento con calma» gli aveva sussurrato Meteora il giorno prima, ponendo un significativo accento sulla parola approfondire. Lui si era guardato intorno, prima di rispondere: «Volentieri, conosce un posto appropriato?»
Certo che lo conosceva: la vecchia cascina dei nonni. Isolata, in mezzo alla campagna.
Tutto finì per via di una stupida discussione sull’opportunità di andare a vivere insieme.
Meteora.
Quel giorno mi mise alle strette con uno sporco ricatto: avrebbe spifferato tutto se non avessi accettato le sue condizioni: prima, andare a vivere insieme e poi il matrimonio. Non subito, certo. Il tempo di organizzare… la chiesa, il ristorante, gli inviti. Nel giro di un anno si poteva fare, mi disse.
Meteora, poverina.
Voleva sposarmi perché programmata a cercare marito, non certo per le mie qualità, assenti da tutti i punti di vista. Potevo essere un buon amante in certi momenti ma finiva lì. E lei lo sapeva benissimo. Ma lei era programmata. Come una mosca che cerca ostinatamente di sfondare un vetro, andava avanti per la sua strada, anzi per la strada che qualcun altro aveva tracciato per lei. Quando cercai di farglielo capire a momenti mi uccide. L’avesse fatto, oggi sarebbe ancora viva. E magari sposata.
Dopo la mia morte, vorrei che il mio cervello sia esaminato. Certamente vi troveranno il motivo per cui continuo a fare cose che non voglio; e riusciranno a capire perché vengo assalito da impulsi così irresistibili. Allora sapranno che non ho mai avuto colpe; e capiranno che sono sempre stato la vittima di me stesso e delle mie stesse esperienze.
Quella notte, finii una bottiglia di Jack Daniel’s vegliando il cadavere della mia ex.
Meteora.
Appunto.
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