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venerdì 6 aprile 2018

Agnello di Dio, che Togli i Peccati del Mondo


L’origine del termine capro espiatorio è da far risalire alla cultura ebraica e precisamente a quel giorno dell’anno che si chiama Kippur, ovvero giorno dell’espiazione.
Durante il Kippur, il popolo conduceva al tempio due caproni: uno, era sacrificato d Dio, mentre l’altro veniva destinato ad Azael, il demone del deserto. Il caprone regalato a Dio veniva ucciso, quello per Azael veniva lasciato nel deserto, ma solo dopo che il Sommo Sacerdote gli aveva passato tutti i peccati di cui la comunità si era macchiata.
Il capro espiatorio, gravato così di tutte le colpe, veniva sacrificato per la salvezza di tutti.

La cerimonia del capro espiatorio prevede la scelta di una vittima che raccolga su di sé le colpe di una comunità per poi essere uccisa. È un rituale di origini antichissime, si ritrova praticamente in ogni comunità umana dalla notte dei tempi.

In senso lato, sono capri espiatori tutti gli animali e gli esseri umani che vengono offerti in sacrificio agli dèi per placarli e ingraziarseli.
Quella del capro espiatorio fa parte di una condotta più generale che ha avuto un ruolo evolutivo importante in ogni specie animale e che prevede di cedere una parte dei propri averi o del proprio essere per salvare la vita.

La base biologica dalla quale si è sviluppata l'usanza del capro espiatorio è quella definita pars pro toto e riguarda il fatto che semplicemente quando ci si trova in condizioni critiche davanti a un predatore pronto ad attaccare, conviene cedere un pezzo del proprio corpo in modo da tenere l'aggressore occupato il tempo necessario per scappare e aver salva la vita.
Un simile schema comportamentale è impresso profondamente nella vita animale a tutti i livelli:
"Le gambe di certi ragni si spezzano facilmente e continuano a muoversi per qualche tempo; ciò serve a distrarre l'attenzione di predatori ingenui dando modo al ragno di mettersi in salvo.  
Anche la coda delle lucertole si stacca facilmente e resta nelle grinfie dell'assalitore mentre la lucertola fugge.  
Negli uccelli abbiamo la muta da terrore: l'individuo attaccato da un predatore si spoglia di colpo delle piume abbandonandole all'attaccante e fugge allo stato nudo.  
Tra i mammiferi, la volpe imprigionata nella tagliola si stacca la zampa a morsi per liberarsi. Sopravvivere conta più di una perdita liberata" [Esempi presi dal libro La Creazione del Sacro di Walter Burkert, edito da Adelphi. Pagg 61, 62].

Noi esseri umani non abbiamo bisogno di un rigido modello comportamentale geneticamente determinato. In situazioni di pericolo è la ragione che ci guida verso la soluzione più adatta: se ci troviamo su un vascello in mezzo alla tempesta buttiamo in mare il carico per alleggerire il fardello e aumentare le probabilità di sopravvivenza.
Ma la ragione non sempre prevale. Nell'essere umano questo schema di condotta può esorbitare dal piano funzionale spostandosi su quello simbolico; e allora si trovano esseri umani che in simili occasioni gettano in mare non il carico, bensì banconote, o la borsa per offrire doni alla tempesta e placarla.
Nell'uomo, lo schema perde il contatto con la realtà e si muta in rituale: un atto che avrebbe una funzione pratica diventa un procedimento puramente simbolico, magico; e in questa forma viene culturalmente trasmesso.

L'atto di gettare a mare banconote per placare la tempesta ha molto a che fare con la cerimonia del capro espiatorio, ne condivide il medesimo meccanismo con la differenza che mentre sul vascello è una singola persona che agisce per salvare sé stessa, col rito del capro espiatorio è un'intera comunità che, per ottenere una qualche salvezza, sacrifica una parte di sé: sceglie uno dei suoi elementi, lo carica di tutte le colpe e lo offre alla divinità.

I riti sociali di questo tipo si perdono negli abissi del tempo, sono diffusi in tutte le civiltà, in ogni periodo storico, e quello cristiano non è altro che un esempio tra tanti.

Cristo muore sulla croce per offrirci la salvezza liberandoci dai peccati.

L'assenza di logica, la mancanza di consequenzialità e l'assurdità di un simile scenario non hanno mai scalfito la popolarità del cristianesimo. Intelligenze per altri aspetti acutissime, hanno ignorato per secoli e continuano a ignorare il non sequitur che inficia il fondamento di questa religione:
perché morire per salvarci, e da cosa, poi?  
Quale esempio di moralità è mai quello che addossa le colpe altrui su un innocente per poi ucciderlo?  
Che giustizia è mai quella che fa pagare ai figli le colpe dei padri? E quali colpe, poi? 
Perché la redenzione deve passare attraverso il sacrificio umano? E la redenzione da cosa, poi?

Sul piano logico, sono tutte domande che non hanno risposta, a meno ché non si sposti il contesto dal simbolo alla realtà seguendo a ritroso quel meccanismo tipicamente umano che tende a ritualizzare i comportamenti vincenti sul piano biologico.
Per guadare il fiume, le zebre devono necessariamente cedere uno o pochi elementi ai coccodrilli.   
In una mandria di bufali o di elefanti, gli elementi più deboli sono quelli che salvano il gruppo finendo in pasto ai leoni.  
In questo modo, dovettero salvarsi anche intere comunità di umani cacciatori-raccoglitori, per decine di migliaia di anni o forse milioni, in marcia verso territori inesplorati.  
La vita del gruppo in cambio del sacrificio di una parte di esso. È il prezzo da pagare per raggiungere terre ricche di cibo e non morire di fame.

Il sacrificio di Cristo dunque, spogliato delle sue sovrastrutture simboliche, è una legge biologica, non morale: il mito cristiano ha successo perché risuona nel nostro DNA.
Noi sappiamo che quella morte ci darà la salvezza, sappiamo che quel sacrificio ci libererà dal male e sappiamo di dovergli la vita; ma non sappiamo spiegarlo perché il rito ha ormai perso ogni legame con la realtà ed è entrato nella parte più sacra della nostra psiche, in quel mondo che non può essere attaccato né scalfito da nulla, tantomeno dalla ragione: il mondo vitale della superstizione.

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