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mercoledì 14 marzo 2018

L'Oca Martina e il Circuito Atavico della Superstizione


Konrad Lorenz è considerato il fondatore della moderna etologia scientifica. Nel 1973 ricevette il premio Nobel per la medicina e la fisiologia grazie ai suoi studi sulle oche selvatiche. L’ochetta Martina, in particolare, divenne famosissima perché permise allo scienziato di scoprire il fenomeno dell’imprinting.


Martina al momento della schiusa dall’uovo vede Lorenz. Da quell’istante ogni tentativo di affidare la piccola a un’oca domestica fu vano. L’ochetta incominciò a seguirlo ovunque al punto che fu costretto a costruire un cestino per portarla sempre in spalla. Martina continuerà questo attaccamento, seguendo Lorenz dappertutto, fino all’arrivo dell’estate in cui divenne un uccello adulto pronto a prendere il volo. (Lorenz e l'anatroccolo che lo portò al Nobel)  
L’Imprinting è dunque un programma comportamentale innato, grazie al quale i neonati degli Uccelli e dei Mammiferi, in una breve fase dell’accrescimento chiamata periodo sensibile, riconoscono e seguono la madre o un suo qualsiasi surrogato mobile.

Ma l’Imprinting non fu l’unica scoperta di Lorenz nel suo esteso studio sulle oche. Martina infatti fu protagonista di svariati episodi, estremamente significativi dal punto di vista dello studio del comportamento animale, fra i quali uno dei più divertenti è quello che mise in luce quanto le oche, e più in generale gli animali, possano essere… superstiziosi.
Konrad Lorenz

L’episodio inizia il giorno in cui Lorenz introdusse la piccola Martina, allora ancora anatroccolo, nella propria abitazione. Ecco il suo racconto:
«Quando […] Martina, standomi ubbidientemente alle calcagna, fu entrata in questo locale, la situazione inconsueta la riempì di spavento e lei si precipitò verso la luce, come sogliono sempre fare gli uccelli impauriti, ossia, dalla porta corse difilato alla finestra, passandomi accanto, dato che ero già sul primo scalino. Se ne stette alcuni momenti presso la finestra a calmarsi, poi, di nuovo obbediente, venne da me sulla scalinata e mi seguì al piano superiore. Questa procedura si ripeté allo stesso modo la sera dopo, solo che questa volta il tempo che Martina impiegò per tranquillizzarsi fu più breve. Nei giorni successivi ci fu la deviazione presso la finestra, ma l’attesa scomparve del tutto come pure l’impressione che l’oca si spaventasse ancora. La deviazione verso la finestra assumeva insomma sempre più il carattere di un’abitudine, ed era decisamente buffo vedere Martina risolutamente correre verso la finestra, lì giunta fare immediatamente dietrofront e con uguale risolutezza ritornarsene di corsa alla scala per poi salirla» (Lorenz, 1963: 74).
A questo punto, accade un imprevisto:
«Una sera io mi dimenticai di fare entrare in casa Martina in orario per condurla nella mia camera: quando finalmente mi ricordai di lei era già l’imbrunire. Mi affrettai verso la porta di casa e appena l’aprii Martina si fece strada fra l’ansioso e il frettoloso attraverso lo spiraglio della porta. E poi fece qualcosa di insolito, perché deviò dal suo percorso abituale e scelse il più corto saltando cioè la sua usuale deviazione verso la finestra e salendo sul primo scalino dal lato destro, iniziando così a salire tagliando la curva della scala. Subito dopo però accadde qualcosa che veramente mi impressionò: arrivata al quinto scalino improvvisamente si fermò, allungò il collo, segno questo di grande spavento presso le oche, e sollevò le ali pronta alla fuga. Contemporaneamente emise il grido di allarme e mancò poco non si levasse in volo. Poi esitò un attimo, si voltò, discesa frettolosa i cinque scalini e, col passo alacre di chi ha da compiere una missione importantissima si affrettò lungo la deviazione originaria che conduceva proprio fino alla finestra. Rimontò questa volta la scala nella forma dovuta, tutta spostata a sinistra, e s’arrampicò verso l’alto. Giunta al quinto scalino si fermò di nuovo, si guardò intorno, si scosse e salutò, comportamento, questo, che si può osservare presso le oche selvatiche quando uno spavento provato cede il posto al sollievo. Non riuscivo a credere ai miei occhi! Io non nutro nessun dubbio su come sia da interpretare questo avvenimento: l’abitudine era diventata tale che l’oca non poteva sottrarvisi senza essere afferrata dalla paura» (Lorenz, 1963: 74-75).


Proviamo a riformulare la serie di eventi:
per prima cosa vediamo che Martina sviluppa un comportamento rituale in risposta a uno stress originario. La prima volta in cui entra nell’abitazione di Lorenz infatti si trova ad affrontare l’ansia causata da qualsiasi ambiente nuovo e sconosciuto. Si dirige così verso la finestra pronta eventualmente a balzar fuori. Lì si calma, si accorge che non c’è nessun pericolo imminente perciò torna a seguire Lorenz che nel frattempo aveva già preso la scalinata per il piano superiore. Alla fine, dunque, Martina ottiene quello che voleva - stare accanto a Lorenz, che considerava la sua mamma, nella camera al piano di sopra – e tutto si risolve nel migliore dei modi. Una situazione di forte stress si era trasformata in una situazione di benessere. L’oca aveva attribuito tale trasformazione al suo comportamento perciò lo ripeteva immutato tutte le sere, quando Lorenz la portava in casa, sviluppando un’abitudine con le caratteristiche del rito. Tra l’azione e il risultato viene così stabilito un nesso che non si potrebbe definire altrimenti se non superstizioso. L’ambiente emotivo di forte stress è fondamentale affinché questo nesso si formi, e la ripetizione lo rafforza. Questo legame è divenuto nel tempo così forte che quando Martina, in un’altra situazione di estrema ansia, infrange il rito e si comporta in modo, per così dire, più razionale (passando direttamente dalla porta alla scalinata senza deviare verso la finestra), viene investita a metà strada da un pressante rimorso, forse un presentimento, la sensazione di star facendo qualcosa di sbagliato. Allora per ridurre lo stress è costretta a tornare indietro e ripristinare il rituale. In questo modo evita a sé stessa di andare incontro all’ignoto… hai visto mai!

Ogni volta che un animale affronta una situazione critica che in un modo o nell’altro si risolve, memorizza e impara le azioni che ha compiuto in quell’intervallo e le ripete in tutte le situazioni simili, mostrando anche in molti casi la capacità di generalizzare.
L’utilità di questo meccanismo ai fini della sopravvivenza balza subito agli occhi: la memoria dell’animale registra solo le strategie positive (seguite cioè dalla fine della situazione pericolosa) e dimentica quelle che vengono seguite da ulteriore stress.
In questo modo le oche imparano a vivere e accumulano esperienza sotto forma di superstizione. A questo livello la superstizione è quindi vitale e rappresenta la principale modalità di apprendimento.

Martina inoltre ci mostra come i rituali non siano affatto esclusivi del genere umano, e dunque siano antecedenti alla comparsa del linguaggio verbale.
Caratteristica prettamente umana, invece, è forse quella di trasporre il rito da un piano funzionale a uno simbolico, operando un distacco dalla realtà.
Il significato funzionale del rito animale è dunque quello di ristabilire la calma in una situazione di stress; ed è probabile che i rituali religiosi condividano con quelli animali l’importantissima funzione di ridurre l’ansia.
Francesco Alfano

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